Incontro Responsabili di Comunità

Sabato 2 novembre si è tenuto a Prato l’incontro delle Responsabili di Comunità della zona Italia. Il tema della giornata è stato: “Prendersi cura di sé e degli altri”.

Alcuni passi dell’intervento della relatrice.

«E’ interessante leggere un’antica favola latina, la numero 220  attribuita ad Igino, scrittore (o astronomo) latino del primo secolo d.C., riportata da Martin Heidegger nel paragrafo 42 di Essere e tempo.

“La ‘Cura’, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La ‘Cura’ lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la ‘Cura’ pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la ‘Cura’ e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio di nome, perché lei gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò a contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finchè esso vive sia la Cura a possederlo. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus (Terra)”.


Non è difficile riscontrare delle analogie con il racconto biblico di Genesi 2, nel quale l’uomo viene pure detto essere formato dalla terra e dal soffio divino. Nella favola di Igino però si dice qualcosa di più: si dice che questo essere, composto di due elementi tanto discordanti tra loro, non è riconducibile né al primo elemento (la terra) né al secondo (lo spirito), ma alle mani di chi l’ha formato, al misterioso personaggio chiamato «Cura», ovvero, uscendo di metafora, all’inquietudine che nasce dall’incontro di due elementi tra loro discordanti, la dimensione della terra e la dimensione dello spirito. Da qui appare che l’essenza umana consiste nella relazione che si prende cura, che il centro più intimo di noi stessi è definibile come relazioni, legami, rapporti amorevoli.

Che cosa vuole ciascuno se non attenzione amorevole da parte degli altri? E che cosa dare agli altri se non la medesima attenzione amorevole desiderata per noi?

E’ interessante perché la Cura precede sia lo spirito (Giove), sia il corpo (Terra) ed ha impresso il suo sigillo nell’intimo dell’essere umano. Si trova all’origine di ogni esistenza umana. In questo senso per Heidegger la Cura costituisce l’elemento essenziale “ontologico” dell’essere umano. L’uomo non è uno che “ha” cura, ma “è” cura. Essere nel mondo non vuol dire semplicemente essere nella natura, nella realtà, ma è qualcosa di più profondo. Vuol dire co-esistere, con-vivere, costruire il proprio essere attraverso una comunione di relazioni con le cose e con gli altri.

Essere nel mondo nell’ottica della Cura fa emergere la dimensione dell’alterità come valore, come sacralità, come complementarietà. Questo significa rifiutare ogni forma di dominio e di sfruttamento della natura e degli altri.

E’ proprio questa nuova visione dell’alterità che apre la strada al pensiero della differenza, al “primato del volto”. E il filosofo che ci ha offerto i percorsi di ricerca più significativi verso una antropologia dell’altro è Emmanuel Lévinas. Per questo filosofo lituano-francese se si vuole uscire dal dramma dell’uomo d’oggi e della società contemporanea bisogna partire dal “volto dell’altro”. Il volto dell’altro, dice Lévinas, ci obbliga ad una scelta ben precisa: o il nostro egoismo o la nostra responsabilità per le sorti dell’altro. Il volto dell’altro è un continuo appello che ci chiama a “prenderci cura” della sua esistenza.

Ma il primato dell’altro non porta all’annullamento dell’Io, alla perdita della propria libertà? La centralità dell’altro non è in pratica un vero e proprio “suicidio”?

Lévinas non parla mai di “rinnegamento” dell’Io, ma di “depotenziamento” dell’Io. Se l’Io rinuncia alle sue prese di dominio e possesso sull’altro, non si annulla, ma si rende capace di crescere lasciandosi ammaestrare dall’altro. Lévinas parla non di svuotamento di sé, ma di “uscire da sé”. E questo uscire non è un perdersi, ma un crescere, un aprirsi a possibilità nascoste, imprevedibili. Il riconoscere i diritti degli altri, il rispetto della libertà altrui, dice Lévinas, è molto importante, ma non è ancora rivoluzionario, non cambia nulla, l’altro rimane sempre un “io”. Solo nell’ottica della responsabilità possiamo sperare di seminare nel mondo quel germe profondo di “umanità” da cui può nascere veramente la pace».